Mergui. L’eden, nonostante tutto di Raimondo Bultrini (La Repubblica.it)
Birmania. L’arcipelago di 800 isole, abitato da un’etnia locale, sembra resistere al turismo di massa, anche ora che i militari hanno allentato la morsa delle restrizioni. Scopriamolo insieme
Qui le chiamano isole Myeik, altrove Mergui. Ma più importante del nome è il loro posto nella storia delle frontiere ecologiche del Pianeta. Gli 800 atolli piccoli e grandi che s’affacciano lungo le coste al sud della Birmania fino a lambire quelle della Thailandia, sono stati aperti solo nel ’97 a un turismo selezionato e supercontrollato dai generali. Ma in tutto l’arcipelago c’è ancora un solo resort. Il primo, si suppone, di una serie che potrebbe venire inaugurata quando le grandi compagnie turistiche e di affari decideranno che i tempi sono maturi per investire qui. Ma dal 97 sono passati diciassette anni, e già da quattro i generali hanno tolto le divise e abbracciato più o meno la democrazia. Come mai allora le Mergui sono ancora così lontane dalle rotte turistiche tradizionali?
Non per scoprirlo – i tempi asiatici sono diversi dai nostri – ma per goderle eccoci qui a bordo della Sea Gipsy di una compagnia chiamata Moby Dick, che salpa dall’isola di Kaw Thaung non tenendo conto tanto delle maree e delle tappe stabilite nei programmi, ma dei cambiamenti spesso improvvisi delle compagnie aree birmane. Come la povera balena simbolo della natura libera perseguitata dal capitano ossessionato dalla sua preda, Moby Dick e le altre compagnie di crociera combattono ogni giorno coi proprietari degli aerei di linea privati ossessionati dal massimo del profitto. Infatti gran parte dei voli sono spesso dirottati verso le méte frequentatissime del nord, Pagan, Inle Lake, Mandalay, e così noi che siamo al sud, tra partenza da Rangoon e arrivo a Kawthaung per l’inizio della crociera, abbiano subito tre cancellazioni. Poco hanno potuto i poveri impiegati della Moby Dick, che pure alla fine sono riusciti a mettere insieme i passeggeri in tempo per offrirgli uno spicchio di Paradiso a bordo della “Zingara del mare”. Per fortuna si puo’ accedere anche dalla Thailandia, visto che Rangong è a solo 20 minuti di traghetto.
La Sea Gipsy ha una pancia da balena accogliente con letti enormi e legno vecchio lungo tutti i suoi 30 metri. Non ci sono zanzare in mare ma le poche giunte in cabina dalle isole che ci circondano possiamo vederle danzare pigre al ritmo delle onde illuminate da una luna piena accecante. E’ l’effetto della mancanza di inquinamento, dico a me stesso. E’ così chiaro che si potrebbe quasi leggere alla luce naturale, anche perché il riflesso d’argento si riverbera in barca dal mare. Il profilo delle isole che abbiamo solo intravisto al tramonto forma figure che prendono ad animarsi e diventano sogni mentre le onde cullano passeggeri ed equipaggio.
Al mattino i primi avventurieri escono a bordo di kayak sulla prima spiaggia bianca proprio di fronte al nostro approdo notturno. Non per mancanza di fiducia nelle canoe, ma una certa frequenza di onde più alte del dovuto mi consiglia di raggiungere gli altri col canottino guidato da uno dei camerieri di bordo. Se non sei un lupo di mare non ti viene in mente che anche al ritorno ci sarebbe stato lo stesso problema a meno di bonacce improvvise. Infatti quando il timoniere è tornato a prelevarci, è giunta la più alta, buoni due metri e mezzo. Non sarà stato uno tsunami, ma lo è stato per chi scrive, che ha perso in un batter d’occhio la principale finestra sul mondo, gli occhiali da otto diottrie.
Nessuna ricerca ha avuto esito, col povero timoniere tornato di sera a cercare con la luce rossa del tramonto tra le sabbie e le mangrovie ricoperte talvolta d’immondizia trascinata qui da Phuket, consapevole che forse quell’onda avrebbe potuto prenderla di poppa anziché di fianco. Ma la natura non commette errori e lascia che siano quelli commessi dagli uomini a manifestare le conseguenze, di una distrazione o sottovalutazione. Mi sono sorpreso a pensare che le divinità del mare avessero voluto punirmi per aver abusato dei preziosi occhi ricevuti alla nascita stando troppo davanti a un computer, costringendomi così a qualche giorno di astinenza perfino dal leggere libri, dallo scrivere note o godermi un film. E’ una fortuna in queste situazioni avere qualcuno che ti serve colazione, pranzo e cena.
Una delle persone che ha goduto degli effetti positivi della mia disavventura è stata una vera zingara del mare, una ragazza Moken. Sono un popolo restio al contatto con l’esterno, e scappano lontani appena vedono le barche. Dipende dalla brutta esperienza nei secoli con i vicini delle costa, i siamesi-thailandesi a sud e i birmani a nord, che da decenni minacciano il loro stile di vita con le mire espansionistiche sulle isole. Ma i Moken del villaggio di Ma Kyone, con la casa degli spiriti come un presepe perenne a guardia della gente e del mare, sono da tempo incrociati coi pescatori e i marinai di entrambi i Paesi. Infatti, a differenza dei Moken “originari”, accettano di far sbarcare i turisti per fargli vedere come vivono, guadagnandoci qualcosa oltre al pesce che li nutre sette giorni su sette.
A Ma Kyone nessuno porta gli occhiali e non hanno il computer né gli smartphone. Ma su richiesta di Yelwin, l’accompagnatore della Sea Gipsy, la ragazza si ricorda di averne un paio da qualche parte in casa. Torna infatti dopo un po’ con l’aria trionfante. Nella scuoletta dell’isola paradiso che costituisce spesso il grado più alto di educazione raggiunto dai Moken, non ha mai saputo che esistono miopi e presbidi, e altri difetti per i quali servono lenti diverse. Un po’ per non deluderla, un po’ perché all’inizio l’effetto placebo sembrava funzionare, ho pagato i 3 euro richiesti che dovevano costituire un bel gruzzolo a giudicare dagli inchini che mi ha rivolto.
Lungo il porticciolo dove si snoda l’intero villaggio frotte di bambini e cani ci seguono fino in cima alla pagoda buddhista dove i negozietti hanno uno stock di biscotti, cioccolate e caramelle che i turisti solitamente acquistano per regalarli al corteo di piccoli che saltellano scalzi tra i sassi e portano in braccio anche neonati. Lasciati gli ex zingari del mare oggi stanziali per risalire sulla Sea Gipsy, do’ un’occhiata alla famiglia degli spiriti per vedere se gli siamo andati a genio. Penso che non avrei dovuto fotografarli, dicono i marinai che non porta bene, ma ormai è fatta. Ho anche ripreso il tramonto acceso con la bandiera sventolante del Myanmar e i fiori sulla prua con lo sfondo di un atollo a forma di mammella.
Non ci credo nella magia, ma i colori sono fiabeschi e penso che in fondo gli spiriti delle Mergui sono adesso serafici e tranquilli dopo essersi presi i miei occhiali. Ci sono pochi giorni per godere del Paradiso, e in fondo non serve leggere né vedere film quando fuori dalla barca si apre un mondo di colori e vita. Anche se non li vedo bene, sento e percepisco il movimento dei milioni di piccoli granchi che passano da una buca all’altra quando scendo in qualche spiaggia, e lungo il tragitto ascolto il sospiro dei delfini, anche se intravvedo appena i loro spruzzi quando escono e rientrano in acqua.
Vedo anche i segni della “civiltà” sotto forma di plastica, bottiglie, stracci che non mancano mai lungo le spiagge bianche di Pulau Bada, Kyun Pila, Jengo, e le tante altre isole dai nomi inglesi come Grace e Chelmsford, o del tutto anonime. Ma è un dettaglio secondario che cerco di scacciare dalla mente, e accetto di tornare a bordo del canottino perché oggi ci inoltriamo tra le foreste di mangrovie dell’isola di Lampi dove l’acqua è dolce e salata, ma soprattutto senza onde. Il capitano Nayaung che ha la qualità di scovare i punti più tranquilli per ancorare di notte riducendo al minimo il rollio, guida personalmente il canotto per evitare altri incidenti. Ma non sarà colpa sua né dell’equipaggio se qualche spiritello, al terzo giorno di navigazione, mi porterà a toccare terra su un pesce spinoso nascosto tra i pochi coralli vivi rimasti lungo il reef.
Infilzato come San Sebastiano aspetto il solito canottino di salvataggio senza sapere che a bordo, invece di un medico, mi dovro’ accontentare del cuoco che sembra l’unico ad aver già visto casi simili. Con una ciabatta schiaccia tutte le spine impossibili da estrarre una ad una perché troppe e troppo poco fragili, poi versa dell’aceto che, dicono, corrode gli aculei frantumati. Il Paradiso vale la perdita della vista e il dolore al piede, dico a me stesso per farmi coraggo. Ma non vedo l’ora di leggermi un libro che parli delle Mergui come quello con le figure e le spiegazioni di riti e tradizioni che accompagnano la vita dei Moken di generazione in generazione, ricordandomi che durante lo tsunami di dieci anni fa queste tribù di pescatori nati e cresciuti sull’acqua si salvarono proprio per la grande conoscenza dei segni premonitori.
Quale sarà la mia delusione quando più tardi mi diranno che anche loro usano le bombe per uccidere i pesci. Ma quando – in previsione di una tempesta – il capitamo sceglie una cala vicino alla baia degli squali (squaletti, che tutti hanno visto tranne me…) mi dà conforto vedere – anzi sentire – attorno ancorate le loro barchette con le lanterne e il vociare di grandi e bambini. Prima di addormentarmi con la luna che da piena comincia a ridursi lasciando un alone di colori vari e cupi attorno alla sagoma dell’ isola, ripenso ai fiumi tra le mangrovie e al silenzio rotto solo dal motore del canotto. E al sollievo provato quando il capitano ha fermato le macchine ed è tornata a regnare la pace. Potevo osservare nell’acqua quasi ferma il riflesso delle cime degli alberi che sovrastavano la barca in un tripudio di verde nell’azzurro dell’Oceano. Il resto della comitiva in kayak era sparita silenziosa oltre le anse frondose dei canali che s’incuneano verso la foresta primigenia. O almeno quasi.
Oltre alla storia delle bombe dei Moken, nessuno mi aveva infatti ancora raccontato che la parte boscosa di Lampi al di là delle mangrovie è stata ridotta notevolmente per le piantagioni di caucciù, e che attraverso le isole viene dragata sabbia venduta per i grattacieli delle metropoli asiatiche come Singapore. Talvolta non sapere aiuta l’immaginazione e infonde serenità. Ma anche adesso che me lo hanno spiegato gli ambientalisti di Kaw Thaung, e che i pericoli per il Paradiso delle Mergui mi sono più chiari, quei momenti di silenzio e contemplazione tra le mangrovie di Lampi si ripresentano alla mente come una prova della perfezione possibile.
Mi sembra inutile anche domandarmi se il merito di aver preservato gli atolli come Natura li ha fatti sia stato della dittatura militare, che vi ha impedito l’accesso per 50 anni, o degli spiriti di queste acque e foreste che tengono a bada gli intrusi con onde malandrine e pesci spinosi. Di certo per qualche tempo ancora le grandi compagnie che stanno cercando di spartirsi le Mergui e il Myanmar saranno impegnate a fare i conti di un potenziale sviluppo turistico alla thailandese. C’è pero’ anche una remota speranza che decidano di salvare il più possibile la natura così com’è. E finché non hanno deciso come procedere, la fine del Paradiso puo’ attendere.
Source: http://viaggi.repubblica.it/articolo/mergui-l-eden-nonostante-tutto/231023